domenica 25 ottobre 2015

Quando Teresa si arrabbiò con Dio: Il mondo psicomagico di Jodorowsky


Il titolo di questo libro (la traduzione italiana, non letterale, è decisamente azzeccata) nella versione originale in spagnolo suona più o meno così: "Dove un uccello canta meglio" (Donde mejor canta un pajaro), con un sottile riferimento all'albero genealogico sul quale l'uomo-uccello, che in definitiva è l'autore stesso, recupera la dimensione più autentica del sé grazie ad una ritrovata connessione con le proprie radici. 
"Nel 1903 mia nonna Teresa si arrabbiò con Dio e anche con tutti gli ebrei di Dnepropetrovsk, in Ucraina, perché continuavano a credere in Lui malgrado la micidiale alluvione del fiume Dnepr. Durante l'alluvione era morto Giuseppe, suo figlio prediletto. Quando l'acqua aveva cominciato a invadere la casa, il ragazzo aveva spinto in cortile un armadio e ci si era arrampicato sopra, ma il mobile non rimase a galla perché era gravato dai trentasette trattati di Talmud". Comincia così, con un incipit fulminante, una storia di fuga e di sradicamento, di viaggio e di eterna ricerca.
"Quando Teresa si arrabbiò con Dio", va detto, è un libro ostico e particolarissimo, non meno complesso della poliedrica personalità artistica di Alejandro Jodorowsky, scrittore, fumettista, saggista, drammaturgo, regista teatrale, cineasta e poeta cileno naturalizzato francese. Jodorowsky è noto al grande pubblico soprattutto per alcuni suoi film, su tutti "Il paese incantato", "El topo", "La montagna sacra" e "Santa sangre-Sangue santo", e per i suoi studi sulla psicomagia, da lui vista come applicazione alla quotidianità umana di un surrealismo provocatorio spinto fino alle estreme conseguenze.
Devo ammettere che, certamente per limiti miei, dovuti anche ad una scarsa conoscenza del background dell'autore, e forse anche per un innato approccio razionale, ho avuto non poche difficoltà nella lettura e sono stato più volte sul punto di mollare il libro. Ricompensava però il mio sforzo uno stile a tratti godibilissimo, fatto di descrizioni e immagini talmente vivide e originali da trasportare il lettore in una dimensione onirica e quasi visiva. E poi, diciamola tutta, ero davvero curioso di scoprire dove andava a parare questo esperimento letterario che è riduttivo definire coraggioso e unico nel suo genere.
Ciò che Jodorowsky fa, in buona sostanza, è trasfigurare in chiave epica e magica le gesta dei propri antenati, partendo dai suo nonni paterni e materni e arrivando fino ai propri genitori. Il fatto che l'ispirazione del libro sia autobiografica non è irrilevante ed è anzi centrale ai fini di una migliore comprensione dell'opera, tanto che l'autore stesso lo sottolinea in premessa, proseguendo: "Il nostro albero genealogico da un lato è la trappola che limita i propri pensieri, emozioni, desideri e vita materiale... e dall'altro è il tesoro che racchiude la maggior parte dei nostri valori. Oltre a essere un romanzo, questo libro è un lavoro che, se riuscito, aspira a servire da esempio affinché ogni lettore possa seguirlo trasformando attraverso il perdono la propria memoria familiare in leggenda eroica". Il fine dell'autore è dunque molto più che meramente letterario e ha a che vedere con quella psicomagia che egli ha utilizzato anche come strumento terapeutico e qui prova ad estendere all'intera platea dei suoi lettori. Il fatto è che dalle vicende narrate emergono sì valori e riferimenti culturali, ma anche, molto spesso, azioni eticamente (nonché esteticamente) così ripugnanti che viene spontaneo chiedersi quanto ci sia di vero e quanto di fittizio (al di là degli aspetti tanto grotteschi da essere palesemente frutto della fervida fantasia dell'autore). Probabilmente la domanda è mal posta e ci si dovrebbe chiedere piuttosto che funzione abbiano quegli avvenimenti, così come sono descritti, anche nei particolari più disgustosi e scandalosi (spesso nulla, ma proprio nulla, è lasciato all'immaginazione del lettore!), nella visione psicomagica di Jodorowsky. Figlio di ebrei di origine ucraina immigrati in Cile a inizio Novecento e lì incontratisi in maniera del tutto fortuita, lo scrittore sente fortissimo il bisogno di esorcizzare i fantasmi di un'eredità per lui pesante come quella della tradizione ebraica (qui simboleggiata dallo spirito del Rabbi che, nel tentativo di guidare il suo ospite corporeo sulla retta via, appare al nonno Alessandro quando meno se lo aspetta, arrivando a parlare per sua bocca, e spesso mette nei guai l'intera famiglia attirando su di sé le ire di nonna Teresa) riconquistando poi delle radici tutte nuove, non più legate a quella tradizione ma al Paese sudamericano in cui è nato e cresciuto. Così tutto ciò che accade nel libro, si scopre poi, è pensato per concepire quell'embrione (da cui nascerà l'autore nel 1929, anno del famoso crollo della Borsa americana, da cui il titolo dell'altro suo libro autobiografico, "Il figlio del Giovedì nero") nel luogo, giorno e ora in cui una sorta di destino familiare ha stabilito che avvenisse. Prima di arrivare a quel magico istante, incontriamo, lungo la strada tortuosa segnata da una sorte beffarda, la più varia umanità: un ballerino del Balletto Imperiale russo (il nonno materno di Jodorowsky) figlio illegittimo dello zar Alessandro I, saltimbanchi ebrei dediti alla cabala e alla lettura dei tarocchi (arte praticata dall'autore stesso), un uomo-scimmia di cui si invaghisce la nonna Teresa, concependo con lui un figlio ermafrodito che viene adorato come un Messia dai minatori desiderosi di rivalsa sociale, il leader del Partito Comunista cileno che tenta di importare nel suo Paese la rivoluzione leninista. E poi circensi, calzolai, sciamani, agricoltori, allevatori, prostitute, anarchici, ladri, assassini, sacerdoti, mistici e chi più ne ha più ne metta. 
Nel mondo surreale di Jodorowsky c'è spazio davvero per tutto, compresa la vasta gamma delle emozioni trasmesse al lettore con grande potenza: ribrezzo, compassione, incredulità, rabbia, rassegnazione, liberazione, gioia, disgusto e poi quel puro godimento estetico che solo un fine letterato come Jodorowsky sa regalare.     

domenica 18 ottobre 2015

Suburra, ovvero la "Grande Bruttezza"



Premetto che, pur non avendo letto l'omonimo libro di Giancarlo De Cataldo (già autore del fortunatissimo Romanzo Criminale) e Carlo Bonini, le mie aspettative rispetto a questo film erano elevate. Forse per il cast di prim'ordine (Favino, Germano e Amendola, "mica cotica" come direbbero i suburriani), forse per il gran parlare che si è fatto intorno alla storia e alle tematiche, quasi profetiche dello scandalo politico-mediatico diventato per tutti "Mafia Capitale". Sta di fatto che il film mi ha in parte deluso, lasciandomi in bocca il gusto dell'incompiutezza. Ciononostante, sia chiaro, il titolo del post non è un giudizio estetico sul film ma un tentativo di creare un parallelo con "La Grande Bellezza" che può sembrare forzato ma a me è venuto spontaneo. Se infatti Sorrentino ci raccontava una Roma incredibilmente bella ma decadente nei valori, specchio di un Paese avviato ormai da anni su una parabola discendente senza fine, Stefano Sollima ritrae una Città Eterna dove lo squallore delle periferie e dei sobborghi fa quasi da scenario naturale al degrado morale, limitandosi per il resto ai pochi scorci monumentali funzionali alla trama (il Cupolone, inquadrato più volte, Piazza del Popolo e poco altro). Nel mondo di Suburra l'animo umano è completamente corrotto, incapace di provare sentimenti ma guidato dai soli istinti: l'istinto ad arricchirsi il più possibile, l'istinto a prevalere sugli altri, l'istinto a vendicare gli affronti subiti, l'istinto a soddisfare i propri bisogni primari. In un contesto simile neanche la vita umana ha un valore in quanto tale e una morte, voluta o accidentale, è poco più di un inconveniente, un effetto collaterale, una seccatura da lasciarsi scivolare addosso nel modo più indolore possibile. Ed è proprio nel rendere un clima generale di abbrutimento e di inumanità che il film risulta molto efficace. Un clima che coinvolge criminali di diverso rango e faccendieri, ma anche politici e prelati. Fondamentale in questa ottica il ruolo interpretato dall'ottimo Favino, l'Onorevole Malgradi, politico corrotto e apparentemente potente, ma in realtà reso schiavo e pericolosamente ricattabile dai suoi rapporti con la malavita, pur tenuti sempre con la massima attenzione a salvaguardare la forma e a non sporcarsi troppo le mani, e soprattutto da una condotta viziosa e dissoluta che lo trasforma in un essere sempre più infelice e sempre meno libero.
Ci sono poi le bande criminali, che sembrano tenere sotto scacco i potenti e dominare Roma in lungo e in largo. A ben vedere, però, i diversi capi clan che si spartiscono il controllo del territorio somigliano a tanti cani sciolti incapaci di elaborare la più elementare strategia per raggiungere obiettivi di business illecito che comunque sembrano interessarli molto meno delle violenze gratuite e delle dimostrazioni di forza fini a se stesse. Una criminalità, come quella vista in Romanzo Criminale, ben diversa dalle grandi mafie originarie del Sud Italia, dotate al contrario di un'autentica visione e mentalità imprenditoriale e di un complesso sistema di regole e codici di comportamento funzionali al perseguimento della loro "mission". L'unica figura carismatica che sembra stagliarsi con forza nel tourbillon di minacce, accoltellamenti e sparatorie di Suburra è il "Samurai", personaggio interpretato da Claudio Amendola e palesemente ispirato al "Re di Roma" Massimo Carminati. Il Samurai è il solo nella Capitale ad avere una visione criminale globale, che va dalla Santa Sede al Parlamento, dalle "famiglie del Sud" (dei cui interessi economici si autodefinisce il garante) al clan di strozzini degli Anacleti (rom come i Casamonica). E' sotto la sua regia che si riesce a mettere insieme una cordata trasversale per portare a termine il "grande progetto", l'affare colossale di sfruttamento del litorale di Ostia, realizzabile grazie alle connivenze della politica. Anche lo stesso Samurai, si scoprirà poi nel film, non è però del tutto immune dalle ingenuità tipiche della criminalità capitolina, primitiva e quasi naif nelle sue manifestazioni. 
Se l'intento del film era quello di regalarci una Gomorra alla romana, un universo cruento e senza speranza dove la violenza sembra essere un fine più che un mezzo, devo ammettere che lo scopo è stato raggiunto in maniera più che soddisfacente. Se invece Sollima voleva fare un passo in avanti e indagare a fondo le dinamiche che regolano, nella Capitale e in Italia, i circoli viziosi in cui sono coinvolte tutte le sfere del potere, politico, economico, religioso e malavitoso, allora il risultato è decisamente insufficiente. D'altronde le vicende reali delle imminenti dimissioni di Papa Ratzinger e della caduta annunciata del Governo Berlusconi per mano della Troika (siamo nel Novembre del 2011) fanno da sfondo alla storia e appaiono giustapposte agli avvenimenti della fiction senza mai fondersi veramente con la trama. Né basta da solo il personaggio dell'Onorevole Malgradi, pur pregnante e ben interpretato, a raffigurare la Politica italiana con le sue specificità e i suoi cortocircuiti, etici e non solo. Per non parlare del tema degli scandali all'interno della Chiesa e della gestione economica dello IOR, che è appena sfiorato dal film, quasi per paura di creare qualche imbarazzo di troppo. L'impressione che rimane è quella di un'occasione persa. 
Suburra, a mio giudizio, è un film interessante, da vedere, ma certamente non si tratta di un'opera memorabile.