domenica 3 maggio 2015

Il Dogma del Cambiamento: visione, salto nel buio o semplice restyling?


Mi colpisce e stimola la mia riflessione una dichiarazione di ieri del Senatore a vita Giorgio Napolitano. I giornali di oggi la riportano grosso modo così: "il sindacato si è arroccato, ora si deve rinnovare". Scopro poi per caso, cercando sul web qualche approfondimento, che esattamente un anno fa, il Primo Maggio del 2014, ne aveva rilasciata un'altra praticamente identica. L'unica differenza è che allora lo faceva nel ruolo di Presidente della Repubblica, con un Jobs Act ancora da discutere e approvare e un'amara medicina da far ingoiare, poco alla volta, alle riluttanti Parti Sociali (che arriveranno poi allo sciopero generale del 12 Dicembre, orfane della Cisl e, a dirla tutta, fuori tempo massimo per incidere davvero sul processo legislativo in corso). Dove voglio andare a parare? Non mi interessa qui entrare nel merito della questione lavoro, tutele sindacali, Articolo 18 e chi più ne ha più ne metta. Fiumi di inchiostro sono stati e continueranno a essere versati sull'argomento senza arrivare a un punto. O forse il punto l'ha messo definitivamente Renzi col suo più che discutibile Jobs Act (questa è l'ultima volta che lo cito anche perché mi fanno venire l'orticaria gli anglicismi furbi e superflui e intanto vi segnalo questo interessante articolo di Silverio Novelli sull'aspetto linguistico della materia: http://www.treccani.it/lingua_italiana/articoli/paroledelleconomia/Jobs_act.html).
Ciò su cui invece vorrei concentrarmi è il cambiamento (o rinnovamento, che poi è lo stesso) come valore in sé, come unica ideologia sopravvissuta al Novecento se non addirittura come nuova religione laica. Sulla scena politica, nel dibattito pubblico e perfino negli ambienti culturali e nei corsi di formazione aziendale è tutto un mantra: rinnovare, rottamare, svoltare, riformare, adattarsi al cambiamento. Ma siamo davvero sicuri che cambiare sia, se non inevitabile, quanto meno auspicabile? E soprattutto che il cambiamento in quanto tale sia la panacea di tutti i nostri mali? Che la nostra stessa natura di uomini o anche solo di esseri viventi sul pianeta Terra ci imponga il cambiamento a prescindere dalla nostra volontà non c'è davvero alcun dubbio. Da Eraclito a Darwin, passando per un numero imprecisato di pensatori e scienziati, quasi tutti hanno osservato, studiato e interpretato il fenomeno. Che poi siamo più o meno in grado di controllare il cambiamento è una questione ampiamente dibattuta e tuttora aperta. Nelle visioni più deterministiche del mondo esso viene sostanzialmente subito. Gli Stoici, tanto per fare un esempio, arrivano a dire che l'uomo saggio è colui che vuole ciò che vuole il Logos (leggete destino, legge naturale, dio impersonale o come più vi aggrada) e quindi riesce a desiderare, comprendendone la razionalità, un cambiamento a cui comunque non potrà sottrarsi. Nei sistemi di pensiero che prevedono invece il libero arbitrio (ad esempio molta filosofia di matrice cristiana) la volontà dell'uomo come individuo o, per essere più precisi, come persona, è determinante nel produrre questo o quel cambiamento.
Molte di queste dottrine hanno però in comune un giudizio, generalmente etico o comunque di merito, sulla direzione in cui il cambiamento avviene. In sostanza, se parto da uno stato A, non è indifferente approdare a uno stato B o a uno stato C e anzi il giudizio sul processo di cambiamento, sulla sua efficacia ed eventualmente sulla sua giustizia o eticità dipenderà esattamente dal punto di arrivo, certo anche in rapporto al punto di partenza, rispetto al quale dovrebbe idealmente costituire un miglioramento da qualche punto di vista. E' chiaro, in ogni caso, che per giudicare il cambiamento ci occorre un sistema di valori di cui il cambiamento stesso non può far parte ma deve costituire invece l'oggetto. Che poi alcuni fattori o eventi esterni a noi e alla nostra volontà possano spingerci in una certa direzione anziché in un'altra non costituisce un'attenuante né tanto meno rende quella direzione più giusta di un'altra. Al contrario, se riteniamo che la direzione giusta sia quella contro vento, dovremo perseguire il nostro obiettivo con forza e tenacia ancora maggiori, nonché con un pizzico di astuzia nel saper attendere il momento più opportuno o nel saper mediare tra il fine che ci poniamo e il principio di realtà, ovvero le condizioni oggettive di raggiungibilità dello stesso. E' infatti evidente che combattere contro i mulini a vento non giova a nessuno. Potremmo stare invece delle ore a discutere se esistano dei valori oggettivi in base ai quali poter stabilire che una direzione è più giusta di un'altra. Qualunque sia infatti la nostra etica o il nostro metro di giudizio, troveremo sempre qualcuno disposto a sostenere, su questa o quella questione, l'esatto contrario di ciò che noi pensiamo. Per semplicità e per non avventurarmi su terreni scivolosi e oltremodo impervi (non pretendo certo di esaurire in questo post migliaia di anni di speculazioni filosofiche sul concetto di Bene e di Male!) ipotizzerò che sia giusto ciò che ognuno di noi, in coscienza (anche qui ci sarebbe da discutere se esista e cosa sia), ritiene essere giusto.
In alternativa potrei dire che è giusto ciò che va nella direzione del Bene Comune, ovvero fa l'interesse della maggior parte degli individui di una certa comunità. Dovremmo poi stabilire quanto è grande questa comunità. Se infatti ragionassimo su scala globale, l'unica certezza sarebbe che non ci siamo mai neanche avvicinati alla Giustizia, viste le condizioni in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.


Se ci limitassimo, più modestamente, all'Italia, si tratterebbe di distinguere tra gli interessi degli imprenditori, dei lavoratori dipendenti e autonomi e così via, individuando categorie più o meno estese di cittadini. Molti degli interessi di cui queste classi sociali (come si sarebbe detto una volta) sono portatrici sono ovviamente inconciliabili e in contrasto tra loro. E' evidente (e nessuno sarebbe così pazzo da negarlo) che anche il Sindacato è una stampella degli interessi di una parte non totalitaria e forse nemmeno maggioritaria della popolazione italiana (lo si accusa, spesso a ragione, di non tutelare abbastanza i precari e i disoccupati). Questo, però, non è certo un fatto nuovo, sebbene la fascia dei non protetti e non tutelati si sia allargata a dismisura negli ultimi anni in seguito alla crisi economica ma anche, va detto, della precarietà lavorativa alimentata e incoraggiata per anni dalle politiche di Governo. La novità, semmai, nell'attuale contesto politico, è che il Governo, da arbitro imparziale o almeno terzo dei conflitti sociali e della famosa concertazione (che sembra ormai davvero defunta) si è trasformato in un giocatore schierato apertamente con una squadra. E si sa che senza un arbitro imparziale non ci può essere partita, soprattutto se le forze in campo erano già squilibrate in partenza, come sono storicamente e, oserei dire, per loro natura, quelle dei datori di lavoro e dei lavoratori. Per rimanere in tema, tornando un attimo allo spunto da cui siamo partiti: il Sindacato deve cambiare? Io dico sì, senz'altro, se vuole sopravvivere. Deve cambiare perché glielo chiede qualcuno o perché i tempi, la Storia (o quello che volete) glielo impone? Direi di no. Potrebbe scegliere di non cambiare affatto, accettando poi le prevedibili conseguenze. Il punto però, mi sembra, non è nemmeno questo. Il punto è: in che direzione deve cambiare? Questo, a mio modo di vedere, non può stabilirlo né Napolitano, né Renzi né nessun altro soggetto esterno al Sindacato stesso, almeno finché, come in ogni democrazia che si rispetti, mantiene una sua autonomia dal potere (in quanto corpo sociale intermedio) e una sua capacità e legittimità di autoregolamentazione. E' opinione diffusa che il sindacato debba prendere atto dei profondi cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nel quadro socioeconomico e adattarvisi in maniera pressoché passiva, quasi come un liquido si adatta ad un contenitore solido (e, si badi bene, un liquido non può in nessun modo fare altrimenti!). Per dirla in soldoni, dovrebbe rassegnarsi a perdere molte delle conquiste del passato, tanto in termini di diritti (ed è questa, a mio modo di vedere, la parte più dolorosa) quanto in termini di riconoscimenti salariali, pensando piuttosto a limitare i danni e possibilmente contribuendo (con le proposte, con l'atteggiamento costruttivo e così via) a completare un processo storico ormai inevitabile, rispetto al quale si trova già in grave e colpevole ritardo rispetto al Governo e alle controparti. Senza voler entrare nel merito della faccenda, vi faccio solo notare che questa non è affatto l'unica possibilità. Il Sindacato potrebbe anzi pensare di cambiare in tutt'altro modo, almeno in linea di principio. Ad esempio tornando sulle barricate degli anni Settanta, inasprendo ulteriormente un conflitto sociale e politico già durissimo. Questa ipotesi, curiosamente, quasi nessuno la prende in considerazione, neanche all'interno del Sindacato stesso. E del Governo, o più in generale della Politica, cosa possiamo dire? Sta perseguendo il cambiamento? Riesce a rinnovare se stesso? Quanto è efficace la sua azione riformatrice? Nessun dubbio che Renzi abbia impresso all'azione politica una decisa accelerata nell'ultimo anno. Pur non rispettando tutte le scadenze che si era inizialmente prefisso, sono già numerose le leggi e riforme che è riuscito a realizzare, anche utilizzando metodi discutibili e intrattenendo rapporti difficili, a tratti tesi e spesso conflittuali col Parlamento e con la stessa maggioranza a geometrie variabili che lo sostiene. E' certamente un uomo del fare, oltre che dell'annunciare (vizio del quale viene tanto accusato). Ma i cambiamenti che sta imponendo sono positivi o negativi? Vanno nella direzione giusta, non dico rispetto agli interessi dei lavoratori, della classe media ecc. ma almeno rispetto agli obiettivi che si prefiggono (rilancio dell'economia, dell'occupazione e così via)? La verità è che in pochi si pongono il problema di entrare nel merito del cambiamento (i sindacati, una parte della stampa e qualche forza politica sono tra questi) mentre sui media di sistema è tutto un lodare la propensione alle riforme in quanto "necessarie al Paese", eccependo tutt'al più sui metodi e sulla forma (rapporti complicati con le opposizioni, interne ed esterne, e con i critici, i famosi gufi, rispetto ai quali l'insofferenza viene addirittura esibita). Per quanto riguarda i contenuti, nell'azione del Governo, in realtà, si intravede davvero poco di nuovo: siamo ad uno stanco ricalcare i modelli neoliberisti del secolo scorso, soprattutto in materia economica e scimmiottare all'occorrenza il sistema di questo o quel Paese occidentale. La novità nella comunicazione è innegabile, sebbene il Berlusconi del 1994 fosse sotto questo aspetto non meno nuovo del Renzi di oggi. Insomma il cambiamento a me pare più di facciata che di sostanza e comunque dubito che vada nella "direzione giusta". Non pretendo di avere ragione ma continuo a stupirmi che questo tema sia praticamente scomparso dal dibattito pubblico, dove viene relegato alle nicchie degli snob e dei malpensanti. Ciò che poi davvero mi preoccupa è l'assoluta mancanza di una visione, di una progettualità. Tutto quello che si fa per cambiare, per riformare il Paese, si fa guardando esclusivamente all'hic et nunc, senza un'idea precisa del modello di società che si vuole costruire. E' un continuo gestire le emergenze: oggi si affronta la corruzione perché sui giornali non si parla d'altro che dell'ultimo scandalo, domani si parla di lavoro ed economia perché gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione continuano ad essere preoccupanti, dopodomani si riformano il Senato e le Province perché i sondaggi dicono che la gente è stanca dei costi e dei privilegi della casta. Se poi non tutte le ciambelle escono col buco e qualche pasticcio istituzionale o costituzionale viene fuori, ce ne faremo una ragione. Da qui scaturisce, tra l'altro, il persistente effetto-annuncio. Ma la visione dov'è? Dove sono le Idee, quelle con la I maiuscola (pur orfane delle sepolte Ideologie), con la loro complessità e profondità che impedisce di sintetizzarle negli slogan da 140 caratteri? Ecco, ciò che preoccupa è che chi governa la nave non sembra avere bussola e carta nautica ma si affida all'istinto del lupo di mare. D'altronde si sa: bisogna cambiare e farlo in fretta. Per pensare, riflettere, elaborare una visione, ci sarà sempre tempo. Intanto sarà il Cambiamento, il Logos moderno, il principio di razionalità che pervade il mondo, a guidarci verso un futuro migliore.


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